ridateci gli Anni '90
Ci fu un tempo in cui la nostra galassia era popolata da persone entusiaste e donne con occhiali da sole tondi.
Le ragazze andavano in giro con scamiciato, cappello da strega, anfibi e rossetto mat fatto per durare; i maschi con camicia di flanella a quadri, spettinati alla Kurt Cobain, di cui imitavano l' aria contrita e scovavano le letture, riuscendo a volte ad assomigliargli.
Le top model sulle riviste erano bellezze inarrivabili, fisicamente iper-dotate. Naomi, Cindy, Claudia, Helena, Stephanie e Christy. La premiata scuderia Versace.
La musica era tornata artigianale, dopo l' overdose di campionature anni '80: la voce di Eddie Vedder spadroneggiava, ma anche gli Smashing Pumpkins non scherzavano, nasceva l' industrial tedesco coi primi rave, e ogni fanciulla sul pianeta sognava l' amore immacolato e giustiziere di Brandon Lee. Un' epoca di graffi, i '90, persi nel turbine di Manipulite e nello shock collettivo e ipocrita del Sexgate.
Il cinema era underground e immortalato nello sguardo di Winona Ryder, Tarantino emetteva i primi vagiti, così come l' ondata Pulp che insisteva sull' estetica del nuovo gangster.
I Novanta sono sinonimo di cult. Serie televisive, prodotti cinematografici indipendenti, teen star e comics impegnati. Clerks trionfava a Cannes e Dylan Dog in edicola.
Nella fotografia di moda spopolava il bianco e nero da rotocalco, lussuoso e contrastato, forse per rimediare all' abbuffata di fantasie tessili. L' Europa post Guerra Fredda ospitava fermenti creativi e scioperi di massa.
Rimbaud diventava classico e gli outfit rivisitavano i mitici '60. Beat generation e Siddhartha, video musicali e copertine. Oliviero Toscani fondava la fabbrica di luci che sarebbe stata la rivista Colors, mentre nel mondo si affacciava la piaga dell' AIDS.
Ultimo decennio in cui si è combattuto per qualcosa che all' epoca si chiamava libertà di espressione. Si riavvolgevano i nastri su musicassetta con la penna biro e si manifestava per la scuola pubblica.
Mandela veniva scarcerato ed eletto nel periodo di transizione che accompagnò l' uscita del Sud Africa dall' apartheid.
Cosa sia rimasto di quel periodo a fumetti, nessuno lo sa. Forse i Novanta sono stati semplicemente inghiottiti dai falsi miti che andavano affermandosi. La creatività è diventata immagine, la pubblicità ha occupato le nostre vite. L' arte forse è morta, in quegli anni che Andy Warhol non fece in tempo a vedere, ridotta a graffito, installazione, riproduzione.
Chi li ha vissuti, prima del crollo delle borse asiatiche del '98, assisteva alla nascita di internet e dei primi franchising, capostipiti di un futuro globalizzato. Si ricorderà forse un periodo di grandi speranze e cambiamenti inconsapevoli ma repentini. Aleggiava una specie di ingenua euforia collettiva, economica e politica, dopo il crollo del muro. La consapevolezza dei propri diritti non faceva ancora a pugni con un senso del dovere collettivo e condiviso. Forse è presto per rivalutare anni passati troppo in fretta, il cui lascito morale è il singhiozzo che accompagna istanze di giustizia sociale, lontane dall' assistenzialismo alla Tony Blair.
Non è presto, invece, per liberarci del cinismo da revival anni '80 che dal 2001 ha sposato una concezione machiavellica del consumo, fine ultimo di quel capitale i cui rischi ci son stati svelati nel 1800. Non è presto, in definitiva, per ricominciare a pretendere i nostri diritti, per riprendere il volo dell' arte, per lavorare perché ci piace farlo e farlo bene. Non è presto, ma può essere tardi.
photo editing: la redazione